venerdì 26 febbraio 2010

Relazione sul laboratorio di “Didattica Ludica della Fonetica dell’Italiano”

Realizzato presso l’I.C. “Campanella-Sturzo” di Librino (CT) (Dicembre 2009-Gennaio 2010)
(IV Elementare e II Media)

Di Giuseppe Interlandi

Nell’ambito dell’azione di studio e sperimentazione del gruppo Grammagiò sono stati realizzati diversi progetti di didattica ludica volti a sperimentare ancora, nelle classi, tecniche didattiche e strategie educative che rispondano direttamente ai bisogni psicolinguistici degli apprendenti. Nel mio caso, l’idea di porre in essere un laboratorio di fonetica, nasce dagli studi compiuti nel campo dell’insegnamento dell’italiano a stranieri e dall’apporto proveniente dalle svariate esperienze di vari studiosi di questo settore. L’idea che ho voluto coltivare nell’ambito di questo progetto nasce dall’osservazione del particolare contesto linguistico appartenete agli alunni dell’istituto librinese. La competenza linguistica di molti di loro può essere accostata, con le dovute differenziazioni, a quella degli apprendenti stranieri che si muovono, più o meno consapevolmente, in quella “terra di mezzo” che conosciamo come interlingua. Ciò che rende particolare il contesto d’apprendimento degli alunni in questione è la loro marcata dialettofonia che, se non considerata con la dovuta attenzione, può generare fenomeni di fossilizzazione linguistica proprio come nel caso degli apprendenti stranieri. Alla luce di quanto detto si spiegano anche quei casi di bambini che pur avendo una matura competenza morfologica e sintattica presentano, dal punto di vista fonologico, delle strutture non metabolizzate o sospese a metà tra i due codici: il dialetto che funge, diverse volte, da lingua di socializzazione primaria e l’italiano come lingua di scolarizzazione e codice tramite il quale è possibile comunicare con chi viene “da fuori”. Alla luce di quanto affermato fin qui ho proceduto somministrando dei test di valutazione della competenza in lingua italiana rispondenti ai criteri stabiliti dal QCE (Quadro Comune Europeo per le Lingue) e già utilizzati con successo dal altri esperti[1]. Per quanto riguarda la competenza fonologica ho somministrato un secondo test realizzato sul modello della sezione di “Segmentazione Fonemica” del test di abilità metalinguistiche “Tam-2” senza però seguire le elaborazioni dei dati del Tam che riguardano un’analisi linguistica molto più ampia ed approfondita[2]. Dai risultati del test, che riporto nei grafici presenti in questo documento[3], risulta una debole competenza metalinguistica per quanto riguarda la fonologia della nostra lingua dovuta, come già detto, all’influenza del dialetto. Il percorso, dunque, si è svolto tramite la realizzazione di attività ludiche di motivazione e coinvolgimento tramite la lettura di piccoli brani e l’ascolto di segmenti di parlato che contenevano le associazioni di suoni sulle quali riflettere. Insieme alla docente abbiamo privilegiato, in questa prima fase, la corretta associazione dei suoni  [ʧ] [k] [ʤ] [g] [ɲ] [ʎ] [ʃ] ai digrammi e ai trigrammi corrispondenti. Proprio perché gli allievi in questione erano fortemente dialettofoni sono state previste attività volte al riconoscimento delle doppie tramite l’associazione di significante e significato in coppie minime di parole. Sono state sfruttate opposizioni fonologiche tra parole anche in attività di produzione orale tramite le quali gli allievi hanno riflettuto induttivamente anche sul tratto di sonorità che di determinati suoni come la “s”. I docenti, in corso d’opera, mi hanno anche esposto una loro perplessità riguardante alcuni comportamenti nello scritto dei ragazzi. Non distinguevano, a volte, i contesti in cui la “i” è propriamente grafica e quelli in cui si pronuncia. Le ultime attività, allora, hanno riguardato proprio questo aspetto. Gli alunni hanno ben accolto la riflessione sui “suoni della nostra lingua” perché grazie alla portata ludica  e motivante degli incontri “l’astrattezza” degli argomenti trattati non ha rappresentato un freno per la motivazione ad apprendere.

Risultati del test sulle abilità metalinguistiche in campo fonologico[4]

Sono stati riscontrati anche i seguenti fenomeni (nello scritto):
·         Scambio della polivibrante alveolare sonora con la laterale alveolare sonora (Golizia per Gorizia o barcone per balcone)
·         Scempiamenti
·         Assimilazioni (focchetta per forchetta)
·         Scambio di sorde e sonore (Cosensa per Cosenza)
·         Scambio della semiconsonante palatale sonora con la laterale palatale sonora (Aquileglia per Aquileia)



[1] C. Ciulli-A.L. Proietti, Da zero a cento. Test di (auto)valutazione sulla lingua italiana, Alma Edizioni, Firenze, 2005
[2] M.A. Pinto, G. Candilera, P. Iliceto, Tam-2. Test di abilità metalinguistiche, Scione Editore, 2003.
[3] L’esperienza ha coinvolto una classe di scuola elementare ed una di scuola media. Si riportano i dati relativi alla quarta elementare.
[4] La sezione di “Segmentazione Fonemica” del Tam2 consta di quattro parti (solo in due è pertinente la differenza tra sfera linguistica e metalinguistica):
1.       Comunanze e differenze fonetico-fonologiche in coppie minime di parole, basata sul principio della doppia articolazione formulato da Martinet. Con questa prova si vede se il soggetto è capace di capire il passaggio dal piano del fonema a quello del morfema
2.       Scansione in sillabe
3.       Individuazione di fonemi che si ripetono all’interno di una lista di parole
4.       Formazione di parole composte di un fonema iniziale variabile e di un frammento di parola fissa

venerdì 8 gennaio 2010

Le sfide della didattica interculturale: breve resoconto di un'esperienza






(il presente articolo sarà pubblicato a breve sul sito 
dell'I.C. "Campanella-Sturzo" di Librino nella sezione "Attività e progetti")
Il caso di Bianca[1]
La funzione propria dell’insegnante nella scuola odierna non si esprime più soltanto nella mera trasmissione di saperi, ma consiste in un continuo stimolo della voglia di mettersi sempre in discussione per poter far fronte ai bisogni educativi del nuovo discente che è innegabilmente multimediale e multiculturale. Da questo asserto muovono le riflessioni teoriche e le conseguenti esperienze pratiche relative a progetti di rete avviati dalla Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università degli Studi di Catania in concomitanza con scuole ed enti locali. L’esperienza che mi accingo a descrivere ha riguardato l’I.C. “Campanella-Sturzo” di Librino (Catania) presso il quale, prima di laurearmi, ho svolto la mia attività di tirocinio in una classe in cui era presente un’alunna di nazionalità rumena. In prima istanza sento il dovere di ringraziare sentitamente il preside, prof. Lino Secchi e la scuola tutta per la sensibile, dolce e pronta disponibilità. Ringrazio in maniera particolare la docente Maria Rossino, responsabile del progetto “Intercultura”, con la quale ho condiviso le gioie di questa piccola ricerca imparando tante cose dalla sua esperienza in classe. L’allieva, che allora frequentava la classe prima, era già ad uno stadio di acquisizione linguistica abbastanza avanzato data la felice condizione scolastica e familiare che fornivano alla discente un input o CDS (child direct speech), come lo chiamerebbe Anna De Marco, abbastanza ampio e variegato. La scuola in questione si trovava alla sua prima esperienza con bambini stranieri in classe e dunque abbiamo lavorato in un contesto d’apprendimento caratterizzato da una totale estraneità dei partecipanti all’idea di diversità. Il lavoro fatto con l’insegnante Rossino, dunque, è partito da una immediata necessità di sottolineare il concetto di condivisione, educando i ragazzi a disegnare e colorare con materiale comune e rappresentando, nella prima attività, se stessi ed i ricordi, i profumi, gli odori e i colori che ci rappresentano. La bambina ha subito disegnato la sua rappresentazione della casa posseduta nel paese d’origine, disegno che ricorre anche nei quaderni usati durante l’anno scolastico. Questa esperienza del disegno mi ha fatto seriamente comprendere la portata della situazione in cui viene a trovarsi un allievo, specialmente in tenera età, che deve riorganizzare il proprio sistema linguistico e sociale per entrare in contatto con la nuova realtà. Questi lavori sono stati successivamente posti in una “scatola magica” dalla quale ogni bambino prelevava un elaborato a caso cercandone l’autore. Questi veniva invitato a motivarlo esprimendo i propri sentimenti (ed anche la propria lingua italiana!). L’allieva di origine rumena non si è limitata esclusivamente all’uso del presente indicativo, ma ha dimostrato di saper calibrare gli usi del passato e di altre forme verbali, la sintassi si presentava ben articolata e la morfologia quasi perfetta. Nel parlato dell’allieva ho colto una sola occorrenza di uso “diverso” del futuro che, in quell’occasione, è stato costruito perifrasticamente con forme del verbo volere proprio come in Romeno. Nello scritto ho potuto cogliere dei fenomeni che mi hanno portato a scavare un po’ di più. Sfogliando i coloratissimi quaderni dell’allieva mi sono accorto di un regolare scambio della fricativa alveolare sonora (z) con l’affricata alveolare sonora (dz) in posizione intervocalica. Il termine poesia [ˈpɔˑezja], per esempio, veniva scritto dalla bambina poezia e non poesia. È possibile ricondurre questo fenomeno alla lingua rumena in quanto la madre parla con la figlia anche il Rumeno. Che fenomeni di contatto come questo siano dovuti anche ad un intervento attivo della madre nella vita scolastica della figlia è testimoniato da un altro fenomeno riscontrato. La bambina, nel passaggio dal plurale al singolare, applicava un indistinto suffisso “-o” a tutti i termini che finiscono per “–io/-ia”. Il singolare di spiagge, per esempio, veniva realizzato come “spiaggeo”, di bucce come bucceo, di pance come panceo ecc. Ho potuto giustificare questa realizzazione del singolare quando mi sono accorto, in un esercizio per casa compilato stranamente dalla madre, che il fenomeno era proprio del genitore e non della figlia che lo riproduceva, in altri esercizi, sotto dettatura. Questa forma di singolare, comunque è riconducibile ad una struttura fonica dell’italiano non metabolizzata dalla parlante in questione. Se prendiamo come esempio il termine pancia, infatti, ci accorgiamo subito che la lettera “i” che siamo abituati a scrivere in questa parola è, nella pronuncia, puramente grafica. Pronunciamo infatti [ˈpaːnʧa] e non [ˈpaːnʧia]. Altro fenomeno di natura fonica è lo scambio tra affricata palato-alveolare sorda (acido) ed affricata palato-alveolare sonora (agenda). La bambina scriveva e a volte pronunciava, infatti, [faˈʤɛːva] al posto di [faˈʧɛːva]. L’ultimo fenomeno riscontrato dimostra la vitalità del sistema interlinguistico nel suo rimodularsi tendendo sempre verso una lingua target. L’allieva rendeva sempre al femminile i nomi dei mesi terminanti in -io (Gennaia per Gennaio). È questo l’esempio di una struttura linguistica non appartenente a nessuno dei due codici, in quanto in Rumeno i nomi dei mesi sono maschili. È probabile che questa forma di singolare sia realizzata per analogia con l’articolo determinativo rumeno che è enclitico. Questa particella -ia, dunque, può derivare dall’articolo rumeno in quanto queste produzioni si verificavano durante la scrittura della data e a volte la bambina “si sbagliava” dicendo «Catania il 15 Febbraio». Dopo aver somministrato ai genitori un questionario sociolinguistico per rendermi conto del contesto in cui la bambina vive ho preparato, a distanza di un anno, un semplice compito per l’allieva. Nessuna occorrenza di quei fenomeni era più presente. Si presentava esclusivamente lo scempiamento delle doppie riconducibile alla lingua Rumena e che avevo già carpito dal parlato dell’alunna l’anno precedente. Questo dimostra che il supporto di un nucleo familiare sereno e motivato come risulta dai questionari sociolinguistici e di una scuola che si avvale della didattica ludica anche per l’apprendimento del lessico e della fono-sintassi è la carta vincente per qualsiasi progetto linguistico ed esistenziale e ciò dimostra anche quanto una scuola che abbia insegnanti colti, aggiornati e reattivi possa essere fondamentale nel processo di integrazione. Il momento più commovente che ricordo è stato proprio quello del commento del disegno, in cui ho potuto toccare con mano la sensibilità scissa del piccolo migrante. La frase che mi è rimasta impressa è la seguente: «Io non ho una casa perché io sento di abitare sia qui che nel mio Paese». Altre attività hanno riguardato sempre il raccontare e raccontarsi tramite un disegno, la funzione delle mani e del saluto nelle diverse civiltà, ma l’evento culminante è stato, anche in questo progetto, la proiezione del film “Azur e Asmar” con le relative attività. La forza magnetica ed esaltante del film è stata di grande aiuto. I bambini sono stati immediatamente rapiti dall’energia dei colori sfavillanti e dalla voglia di capire cosa rappresentassero quei simboli e quei modi di fare altri che comunicano, poi, le stesse emozioni della vita che tutti proviamo.
Giuseppe Interlandi

[1] Articolo tratto e riadattato da: Interlandi G., Dall’Interlingua all’Intercultura. Un percorso linguistico tra le esigenze sociali, (Tesi di Laurea), Catania, 6 luglio 2009, pubblicata su www.tesionline.it





Fotografia scattata durante la riproduzione del film d’animazione “Azur e Asmar”. In questa particolare scena la nutrice, figura di fondamentale importanza dal punto di vista interculturale, si meraviglia alla vista di Azur.











«Altre attività hanno riguardato sempre il raccontare e raccontarsi tramite un disegno, la funzione delle mani e del saluto nelle diverse civiltà».


















« l’evento culminante è stato, anche in questo progetto, la proiezione del film “Azur e Asmar” con le relative attività. La forza magnetica ed esaltante del film è stata di grande aiuto. I bambini sono stati immediatamente rapiti dall’energia dei colori sfavillanti e dalla voglia di capire cosa rappresentassero quei simboli e quei modi di fare altri che comunicano, poi, le stesse emozioni della vita che tutti proviamo».



martedì 5 gennaio 2010

Piccoli artisti per un grande monumento a Librino: La Porta della Bellezza




Il 16 Dicembre 2009 mi sono recata presso l’I.C. “Campanella-Sturzo” di Librino (Catania) in qualità di tutor del progetto “Didattica ludica dell’italiano: morfologia verbale” per due tirocinanti della Facoltà di Lettere e Filosofia di Catania. Il programma della giornata è cambiato non appena siamo arrivate in classe: abbiamo saputo che i bambini dovevano recarsi all’incontro con Antonio Presti – Presidente di “Fiumara D’Arte” – per la presentazione alla stampa del cortometraggio “La Porta della Bellezza” poiché hanno collaborato, come tanti altri bambini delle scuole del quartiere, alla realizzazione della maestosa opera in terracotta che segna anche l'inizio dell'ambizioso progetto del Museo all'aperto "Terzocchio - Meridiani di Luce" (Porta inaugurata il 15 Maggio scorso).
Il Preside ci ha invitate a partecipare all’incontro e ha concluso dicendo esattamente queste parole: «Così oggi imparate anche voi qualcosa da noi!». Devo dire che mi sento soddisfatta perché, quasi per sbaglio, mi sono ritrovata a imparare davvero moltissimo da questo “mancato” incontro con la V A; soddisfatta per aver avuto questa possibilità, per aver potuto ammirare – accanto agli “attori” del progetto – il grande lavoro che si nasconde dietro la realizzazione della Porta della Bellezza che ha visto collaborare i bambini delle nove scuole del quartiere di Librino insieme con artisti dell’Accademia di Belle Arti.
Sono contenta di aver partecipato all’incontro perché sono potuta andare oltre l’“apparenza”. In fondo è sempre così: quando si vede un’opera d’arte si ammira e si critica il prodotto finito, senza soffermarsi troppo a pensare al grande lavoro che sta dietro; invece da questo incontro ho “appreso” il retroscena della realizzazione del monumento, andando oltre l’apparenza.
La proiezione del cortometraggio ha rappresentato anche una lezione di vita. Ho davvero apprezzato il grande progetto di Antonio Presti e, grazie alla sua bravura, mi sono convinta anch’io che si può fare davvero tanto per rivalutare un quartiere come Librino e offrire ai bambini l’opportunità di costruire e cambiare insieme il proprio quartiere. Condivido in pieno, infatti, il pensiero di Antonio Presti, il quale dice che per far rinascere un quartiere si deve partire proprio dai bambini perché loro hanno sicuramente più forza e più voglia di costruire un quartiere che li rispecchi, lontano anni-luce dall’etichetta che vi è stata assegnata.
La Porta è stata costruita con oltre 9.000 forme di terracotta realizzate da 2.000 bambini del quartiere sotto la guida degli artisti coinvolti; le forme sono state modellate e firmate dagli stessi alunni, divenuti così "giovani autori", con lo scopo di renderli protagonisti di un percorso artistico-etico che cambierà la storia e l'identità del quartiere. Le formelle compongono le 13 opere monumentali, ideate da 10 artisti e da giovani allievi dell'Accademia di Belle Arti di Catania. Queste opere, abbinate a testi poetici, sono state applicate lungo una prima porzione di muro di 500 metri in corrispondenza dell'accesso al quartiere sui 3 km totali che tagliano Librino in due parti. L'insieme delle opere si ispira alla tematica della "Grande Madre" e molti bambini si sono ispirati proprio alle loro mamme per il disegno da incidere sulle forme di terracotta.
L'obiettivo – raggiunto, a mio parere, nel migliore dei modi – è stato quello di contribuire a una coscienza comune di rispetto per il territorio e di recuperare e divulgare i valori dell'impegno civile e dell'educazione alla cittadinanza. Il ruolo attivo e centrale delle scuole di Librino, che hanno accolto nei loro laboratori i vari artisti, e l'accoglienza degli abitanti del quartiere sono sicuramente segni positivi di un valore di condivisione.
Il cortometraggio – che ha già ottenuto ampio riconoscimento nei festival nazionali e internazionali ai quali ha partecipato – rappresenta un lavoro tra la fiction e il documentario; è stato curato dalla giornalista Rai Antonella Guerrieri con la regia di Orazio Cristaldi; le musiche sono di Rai Trade. In poco più di venti minuti Antonella Gurrieri sintetizza il “viaggio” durato due anni. La voce di sottofondo che racconta questo “viaggio” è di Emanuele Lo Vecchio: il bambino racconta il suo personalissimo modo di aver vissuto l’esperienza; nel frattempo scorrono le immagini del backstage – realizzate da Claudio Floresta e Francesco Caudullo – che vanno dalle prime riunioni con gli artisti alla festa di inaugurazione che ha visto la partecipazione di più di diecimila persone.
Antonella Gurrieri ha detto durante un’intervista: «Questo progetto mi ha coinvolto emotivamente fin dal primo momento non soltanto per la potenza del messaggio, ma per l’irripetibile coinvolgimento di un intero quartiere. In due anni di lavoro siamo riusciti a realizzare oltre 50 ore di immagini: tutti i giorni abbiamo filmato i passaggi salienti della grande opera monumentale ideata da Antonio Presti, archiviando momenti bellissimi di lavoro e impegno collettivo. Subito dopo l'inaugurazione della “Porta” Antonio Presti mi ha affidato il compito di raccogliere tutto il materiale e farne un documentario. Ma quando ho iniziato a scrivere il testo mi sono accorta che, per fare comprendere l'importanza dell'opera, il documentario non sarebbe bastato. Così frase dopo frase, mi sono resa conto che stavo creando una piccola sceneggiatura».
Sul concetto di identità si è soffermato a lungo Antonio Presti che crede nella possibilità di rinascita del quartiere più giovane e popoloso di Catania. Ha detto infatti: «Quel che oggi io desidero è che il quartiere di Librino possa diventare meta di interesse culturale per i catanesi, i siciliani e per i turisti provenienti non soltanto dalla Sicilia, ma anche dal resto dell’Italia e dall’estero. Con il lavoro svolto i bambini e tutti gli abitanti del quartiere hanno avuto la possibilità di fare qualcosa per se stessi, senza chiedere. Hanno compreso l’importanza dell’identità e del diritto alla cittadinanza». Inoltre Antonio ha approfittato di questa giornata per annunciare ai bambini che il museo d'Arte Contemporanea continuerà coinvolgendo alcuni condomini del quartiere: grazie all'ausilio di registi, fotografi e video makers di fama internazionale diversi palazzi di Librino accoglieranno dal 2010 al 2011 lavori artistici installati sulle facciate cieche.
Aver visto il cortometraggio, aver visto tutti quei bambini uniti per un obiettivo comune, sentire il racconto del piccolo Emanuele, vedere brillare gli occhi dei bambini che si sentono protagonisti di un progetto grandissimo e stupendo: tutte queste cose mi hanno particolarmente colpita ed emozionata. Ogni bambino di Librino si sente, nel suo piccolo, autore di un’opera monumentale ed è bellissima la frase «A Parigi c’è la Torre, a Roma il Colosseo e a Librino la Porta della Bellezza» – detta nel cortometraggio dal piccolo Emanuele alla madre – perché segna una grande conquista non solo per la città di Catania – ieri figlia dell’emarginazione e oggi madre di un malessere quotidiano –, ma anche, e soprattutto, per il quartiere di Librino, conosciuto come quartiere periferico e degradato della città catanese e noto ai più solo per episodi di cronaca nera.

Carmen Oliva

giovedì 5 novembre 2009

Imparare la grammatica giocando

Sono trascorsi nove mesi da quando abbiamo iniziato a lavorare al gioco da tavola “Chi è l’asso?”. Introdurre nelle scuole uno strumento ludico per l’apprendimento della grammatica italiana, materia fra le più ostiche per i nostri alunni, per noi è sicuramente una sfida. Oggi il gioco è pronto e inizia a entrare nelle scuole, non senza pregiudizi da parte di alcuni docenti, ma sicuramente non senza entusiasti sostenitori. La didattica ludica, infatti, è uno strumento di lavoro dal quale solo chi ci crede può ricevere benefici e soddisfazioni. Scendere dalla cattedra per giocare con i propri alunni richiede un investimento emotivo, una fatica intellettuale (e fisica), un’energia vitale e positiva che non è necessaria durante la lezione frontale, quando l’interlocutore più loquace con cui ci si imbatte è la lavagna. Questo elogio dell’edutainment non vuole essere una contestazione della didattica tradizionale e della lezione frontale, tutt’altro. Chi scrive è ben consapevole che il momento dell’aula-laboratorio va obbligatoriamente affiancato al momento dell’aula-classe. L’aula-classe, la fase della trasmissione di contenuti insomma, crea i contesti di riferimento, gli scenari entro cui organizzare le conoscenze dichiarative; l’aula-laboratorio, il regno del metodo e del fare, consente di adoperare tali scenari di riferimento per rafforzare le conoscenze procedurali e metacognitive e produrre un’acquisizione del sapere che dura nel tempo. Perché tutto ciò sia reale, occorre essere motivati. Non ci riferiamo esclusivamente (e come è ovvio) alla motivazione degli alunni, ma prima di tutto alla motivazione dei docenti. La didattica ludica funziona quando l’offerta didattica proviene da insegnanti motivati, che non si lasciano impaurire dalla fatica, dagli iniziali fallimenti, dalle lunghe ore necessarie ad affermare e diffondere una metodologia. Bisogna aver seminato per raccogliere e aver giocato per vincere. Chi insegna per passione sa che la sfida della scuola non è un gioco che si fa tanto per partecipare: è un gioco che dobbiamo vincere se vogliamo che i nostri alunni diventino uomini e donne competenti.
Quando abbiamo iniziato a ragionare sul gioco, sulla sua ragion d’essere, sulla sua spendibilità nel contesto scolastico, lo abbiamo fatto in risposta a innumerevoli richieste che ci provenivano direttamente dai docenti che incontravamo come corsisti nei progetti PON. Durante tali corsi di aggiornamento ci è sempre stato richiesto di proporre metodologie alternative, ma facili da gestire con  gli alunni. L’apprendimento cooperativo, piuttosto che il problem based learning o la mediazione sociale andavano offerte in maniera operativa. “Basta teoria!” è stata la frase più sentita negli ultimi anni. A scuola serviva uno strumento pratico, facile da adoperare e già pronto per l’uso. Nemmeno le schede operative di lavoro erano abbastanza operative, né le esercitazioni laboratoriali abbastanza laboratoriali. “Chi è l’asso?” vuole essere la risposta a questa esigenza di praticità. Mentre i docenti ci chiedevano strumenti di lavoro pratici, gli alunni, durante i i più svariati corsi, tutti improntati sui principi di didattica laboratoriale, si divertivano a sfidarsi in attività di comunicazione, di scrittura, di mediazione sociale. La sfida è uno strumento di motivazione eccezionale. Qualche insegnante la teme, ritenendo che non sia sano stimolare la competizione in classe, dato che fuori dalle mura scolastiche i ragazzi vivono immersi nella competizione, con tutte le conseguenze negative che ciò comporta. Ma il tipo di sfida che qui si propone è una sfida dalla valenza educativa. Perché una competizione a scuola risulti allo stesso tempo motivante ed educativa, deve essere impostata su criteri etici, di correttezza, di altruismo, di cooperazione. Ma facciamo un esempio tratto dal nostro gioco. La casella “Giornata della creatività” richiede alla squadra che vi capita delle abilità creative, di esercizio della fantasia. Le prestazioni che il gruppo è chiamato a svolgere non sono valutabili in maniera assoluta e inequivocabile, ma richiedono da parte di chi le giudica un notevole livello di interpretazione. In questi casi non ci sarà una prestazione assolutamente giusta e una sbagliata, ma una prestazione più o meno positiva. Saranno i gruppi avversari a dovere giudicare (dando il KO o viceversa l’OK) secondo il loro senso di giustizia. Il docente affida a loro la responsabilità di un leale arbitraggio. Responsabilizzare l’alunno e offrirgli l’opportunità di esercitare lealtà e comportamento etico, è sicuramente un aspetto apprezzabile della sfida.
Fuori dalle specificità di “Chi è l’asso?”, in questo contesto si vogliono promuovere gli ineguagliabili benefici della didattica ludica. Un nostro carissimo amico e punto di riferimento pedagogico, Tino Maglia, ci ha detto: “Il gioco è la cosa più seria che c’è”. Riteniamo che ciò sia vero. Il gioco è il modo più naturale di imparare. C’è anche un’altra faccia della medaglia: pensiamo alla teoria dei giochi. Essa ci insegna che con il gioco si decidono le sorti di intere popolazioni. L’importanza di sapere giocare e di pianificare azioni e strategie è evidente. Giovanni Freddi, esperto di didattica, afferma: “La lingua è il più straordinario e raffinato gioco di regole, creato dal gruppo e messo a disposizione del bambino”. Infine Bruner cita la moratoria della frustrazione in riferimento alle potenzialità motivazionali del gioco. L’alunno, cioè, lontano dalle dinamiche tradizionali dell’interrogazione, è in grado di esprimere se stesso e le proprie abilità liberamente, producendo risultati migliori, non falsati dagli stati d’ansia e dalle paure. Per queste ragioni e per tante altre che non possono esaurirsi in questo articolo, le scriventi sostengono da anni l’efficacia della didattica laboratoriale e ludica, ritenendo fondamentale che i docenti si spendano sul metodo prima ancora che sui contenuti, nonostante le difficoltà che ciò comporta, specie in tempi amari come quelli che stiamo vivendo nel bistrattato mondo della scuola.  Chiudiamo il nostro primo intervento su Grammagiò con un augurio di buon lavoro a tutti coloro che operano nel settore della formazione e con l’esortazione a sperimentare, a non perdersi d’animo e a vagliare tutte le criticità dei paradigmi scientifici in cui poniamo il nostro lavoro, affinché esse vengano superate o sorpassate da nuovi possibili paradigmi.


mercoledì 28 ottobre 2009

Quando la tesi porta i suoi frutti anche fuori dal contesto universitario... (Sonia Baglieri)

Nel piano di studi previsto per il conseguimento della laurea tanto in Lettere Moderne, quanto in Filologia moderna, era necessario svolgere un numero di ore pari a circa 80 in stage e tirocini formativi. Sia nel triennio che nel biennio specialistico ho avuto modo di lavorare nello stesso istituto, il liceo psico-pedagogico di Catania, e con il medesimo tutor aziendale, la prof.ssa Angela Giuliano. Mi soffermerò in particolare sull’esperienza formativa vissuta durante il biennio specialistico poiché è stato durante le 50 ore previste che, tra le diverse attività, ho avuto anche la possibilità di mettere in pratica le metodologie ludiche apprese durante il laboratorio LAPOSS e gli studi della tesi in una classe di primo anno in cui sono previste ore dedite alla lingua italiana, intesa come letteratura e come grammatica.
Svolgimento delle attività didattiche.
Prima di soffermarmi sulle attività che qui ci interessano principalmente, schematizzerò brevemente le modalità in cui sono state svolte le attività didattiche nell’arco delle ore di stage e le discipline in cui sono state attuate:
1. ascolto e osservazione delle attività svolte in classe dal tutor aziendale;
2. compilazione da parte della sottoscritta del registro di classe;
3. collaborazione attiva durante le spiegazioni, le interrogazioni, le esercitazioni e i compiti in classe;
4. preparazione, organizzazione e svolgimento, senza la presenza in classe del tutor aziendale, di porzioni di programma didattico inerente tutte le discipline svolte nella classe (lingua e letteratura italiana, lingua latina).
5. somministrazione e correzione in collaborazione con il tutor aziendale delle simulazioni dei test OCSE PISA 2000;
6. partecipazione, insieme al tutor didattico, al Seminario di Informazione e Sensibilizzazione sull’indagine OCSE-PISA e altre ricerche internazionali.
Il punto (4) chiarisce quanto sia stato forte il coinvolgimento personale in classe. La tutor mi ha dato tutto lo spazio di cui necessitavo per rendere l’esperienza completa e soddisfacente sotto ogni punto di vista. Tralasciando le attività svolte nelle ore di latino, mi soffermerò nella descrizione della attività svolte durante le ore di italiano, come si vede qui di seguito:

a.       La prima attività in programma richiedeva esercitazioni per la comprensione e l’apprendimento delle nozioni di sequenza narrativa[1]. Provenendo da un’esperienza di didattica ludica (LAPOSS), come sopra detto, ho cercato di svolgere la lezione partendo dalla pratica per poi giungere alla teoria e alla spiegazione generale delle nozioni sopra dette. Per l’attività mi sono servita di alcuni strumenti quali la lavagna; un cartellone bianco 70x100; due storie a fumetti rappresentanti l’uno il mito della creazione del mondo secondo gli antichi greci e, l’altro, il racconto della Genesi (e dunque la creazione del mondo secondo la religione giudaico-cristiana). Gli argomenti non sono stati scelti a caso, ma selezionati in base a quanto svolto precedentemente in classe dalla professoressa Giuliano. Altrettanto non casuale è stata la scelta dei fumetti rispetto a qualsiasi altro mezzo iconico o multi-mediale. Questo genere di rappresentazione grafica, infatti, è quella più diretta ed efficace per la comprensione del concetto di sequenza perché il fumetto non è che un susseguirsi di vignette che narrano (attraverso le immagini e le didascalie) piccole o grandi porzioni/blocchi di un racconto.
 La lezione, di circa due ore, si è svolta in quattro fasi differenti:
1.      suddivisione degli alunni in quattro gruppi di lavoro di cinque ragazzi circa e distribuzione disordinata di una o più vignette (fotocopiate e ritagliate) riguardanti il racconto della Genesi ad ogni membro di ogni gruppo;
2.      duplice lettura ad alta voce da parte mia del racconto della Genesi. La prima lettura, ben scandita, richiedeva da parte dei ragazzi una grande attenzione in quanto chiamati ad individuare la sequenza narrativa corrispondente all’immagine da loro posseduta e ad indicarne il numero sul retro della/e vignetta/e; la seconda lettura, più veloce, serviva per riepilogare il racconto, concedere ai ragazzi la possibilità di controllare ed eventualmente correggere gli errori commessi, segnare alla lavagna il numero esatto delle sequenze narrative con relativo titolo a fianco;
3.      ottenuto in tal modo lo scheletro del racconto, ogni gruppo era chiamato a mettere in ordine (secondo l’intreccio, e non la fabula) le vignette possedute;
4.      infine, la classe ha attaccato su un cartellone le vignette nel loro ordine esatto per ricostruire così tutta la storia.
La stessa procedura è stata effettuata per il mito cosmogonico greco. L’attività si è chiusa con il riepilogo delle nozioni di sequenza narrativa dandone la definizione e individuando gli elementi principali (grafici e non) che servono a identificarla.

b.      Per quanto riguarda questa seconda attività, ho fatto ricorso ad alcuni materiali adoperati durante il lavoro della tesi, tra cui il testo Grammagiochi  di Paolo Balboni. L’obiettivo da raggiungere era verificare e allo stesso tempo ampliare il lessico degli alunni, per la qual cosa ho pensato più a un lavoro di gruppo che individuale in modo da renderlo più piacevole agli occhi dei ragazzi stessi. L’attività, per altro molto semplice, si può suddividere nelle seguenti fasi:
1. suddivisione della classe in gruppi di cinque persone;
2. pescaggio da parte di ogni capo-gruppo di uno di quattro bigliettini, precedentemente preparati, su cui era segnato un argomento (amore, tempo libero, vacanze, aspetto esteriore);
3. ricerca da parte di ogni gruppo di quanti più sostantivi possibili attinenti l’argomento sorteggiato. Ogni gruppo ha avuto a disposizione circa 10 minuti.
4. lettura ad alta voce da parte dei capi-gruppo della lista così ottenuta, commento e revisione collettivi;
5. invenzione, da parte di ciascun alunno, di un racconto in cui fossero inseriti tutti i sostantivi rintracciati durante l’attività di gruppo.

c.       Una terza attività, fondamentalmente di verifica, è stata preparata sotto forma di esercitazione scritta. Gli obiettivi principali sono stati tre: verificare la padronanza delle strutture del lessico della lingua italiana; la comprensione testuale e la capacità di organizzare e formulare brevi testi (nel caso specifico, mini-racconti). Le prove, una per ogni fila, si presentavano come allegato qui di seguito:





Le avventure di Pinocchio
[…] Appena entrato in casa, Geppetto prese subito li arnesi e si pose a intagliare e a fabbricare il suo burattino. - Che nome gli metterò? - disse fra sé e sé. - Lo voglio chiamar Pinocchio. Questo nome gli porterà fortuna. Ho conosciuto un famiglia intera di Pinocchi: Pinocchio il padre, Pinocchia la madre e Pinocchi gli ragazzi, e tutti se la passavano bene. Il più ricco di loro chiedeva lelemosina.
Quando ebbe trovato il nome al suo burattino, allora cominciò a lavorare a buono, e gli fece subito gli capelli, poi le fronte, poi gli occhi.
Fatti l’occhi, figuratevi la sua maraviglia quando si accorse che l’occhi si muovevano e che lo guardavano fisso fisso.
Geppetto, vedendosi guardare da quei due occhi di legno, se n'ebbe quasi per male, e disse con accento risentito:- Occhiacci di legno, perché mi guardate? Nessuno rispose. Allora, dopo gli occhi, gli fece lo naso; ma lo naso, appena fatto, cominciò a crescere: e cresci, cresci, cresci diventò in pochi minuti uno nasone che non finiva mai. Il povero Geppetto si affaticava a ritagliarlo; ma più lo ritagliava e lo scorciva, e più quel naso impertinente diventava lungo. […].

1. Individua, nel brano qui proposto, gli articoli determinativi e indeterminativi errati e correggili.

2. Sottolinea, nel brano sopra proposto, tutti i sostantivi.

3. Classifica i sostantivi posti in neretto dopo aver indicato la categoria e la classe cui appartengono.

4. Inventa una nuova avventura di Pinocchio, raccontandola in 10 righe al massimo. All’interno del testo devi usare le parole “spaventapasseri” e “ossi”.

Le avventure di Pinocchio
- Ora vieni un po' qui da me e raccontami come andò che ti trovasti fra i mani degli assassini.
- Gli andò che lo burattinaio Mangiafoco mi dette alcune monete d'oro, e mi disse: "Tò, portale al tuo babbo!" e io, invece, per le strada trovai un Volpe e uno Gatto, due persone molto per bene, che mi dissero: "Vuoi che codeste monete diventino mille e duemila? Vieni con noi, e ti condurremo al Campo dei Miracoli". E io dissi: "Andiamo"; e loro dissero: "Fermiamoci qui all'osteria del Gambero Rosso e dopo la mezzanotte ripartiremo". Ed io, quando mi svegliai, loro non c'erano più, perché erano partiti. Allora io cominciai a camminare di notte, che era uno buio che pareva impossibile, per cui trovai per la strada due assassini dentro due sacchi da carbone, che mi dissero: "Metti fuori gli quattrini"; e io dissi: "Non ce n'ho"; perché le quattro monete d'oro me li ero nascoste in bocca, e uno degli assassini si provò a mettermi le mani in bocca, e io con un morso gli staccai il mano e poi la sputai, ma invece di una mano sputai un zampetto di gatto. E li assassini a corrermi dietro e, io corri che ti corro, finché mi raggiunsero, e mi legarono per un collo a un’albero di questo bosco, col dire: "Domani torneremo qui, e allora sarai morto e colla bocca aperta, e così ti porteremo via le monete d'oro che hai nascoste sotto la lingua".

1. Individua, nel brano qui proposto, gli articoli determinativi e indeterminativi errati e correggili.

2. Sottolinea, nel brano sopra proposto, tutti i sostantivi.

3. Classifica i sostantivi posti in neretto dopo aver indicato la categoria e la classe cui appartengono.

4. Inventa una nuova avventura di Pinocchio, raccontandola in 10 righe al massimo. All’interno del testo devi usare le parole “spaventapasseri” e “ossa”.


In conclusione, posso affermare di aver ottenuto dei risultati sorprendenti per quanto riguarda il coinvolgimento della classe: ogni ragazzo ha fatto la sua parte e ha partecipato con vivacità ad ogni fase di lavoro; si è sentito centro dell’attività didattica e ha seguito con attenzione mostrando di aver compreso non solo il senso dell’attività, ma anche, e cosa più importante, del contenuto del lavoro di gioco e di squadra. Ci sono state difficoltà nell’organizzare inizialmente il lavoro e nel mettere allo stesso livello tutti i gruppi: ne sono scaturiti anche errori nella comprensione degli esercizi da fare…errori che per altro si sono rivelati produttivi poiché hanno consentito ulteriori spiegazioni e chiarimenti sulle nozioni trattate che, come già detto, sono alla fine risultate semplici da fissare in mente.
Un’ultima parola vorrei spenderla per ribadire il concetto che l’italiano ha mille risorse da sfruttare, mille strumenti per esprimersi e se il gioco può dar vita ad un livello d’attenzione e apprendimento migliore che ben venga… soprattutto perché il gioco non ha età: può essere rivolto ai bambini delle elementari e, come dimostrato, anche a ragazzi più grandi, quali gli studenti delle scuole di secondo grado.

Sonia Baglieri

[1] Per sequenza narrativa si intende un segmento di testo di lunghezza variabile, che presenta una certa autonomia di contenuto. Il limite tra una sequenza e la successiva è scandito da un cambiamento significativo nello sviluppo del racconto: uno spostamento nello spazio o nel tempo, l'arrivo di un nuovo personaggio, il verificarsi di un nuovo evento, l'inizio di un dialogo. Graficamente, spesso questa può essere individuata tramite il “punto e a capo”. Quindi con un nuovo capo-verso. Ma questa non è una regola cui poter fare sempre riferimento.

mercoledì 7 ottobre 2009

L'arcaica voce dello straniero (a cura di Laura Bonasera)

Eschilo. Sulla scena dell’Agamennone, Cassandra è muta. Seduta sul carro che l’ ha trasportata fino alla reggia, luogo dove il re e lei stessa saranno tra poco assassinati. E non sembra udire le parole che le rivolgono il corifeo e Clitemnestra.
«Forse come una rondine conosce solo un’ignota lingua barbara»- commenta la regina. «Se non comprendi le mie parole - continua - e non intendi, fatti capire non con la voce, ma con le tue barbare mani!».«Sembra che costei abbia bisogno di un buon interprete - le fa eco il corifeo - pare una bestia selvaggia appena catturata». «O forse è pazza e ascolta solo il delirio della sua mente! - conclude sdegnata la regina - non mi abbasserò a gettar via altre parole».
Agli occhi, o meglio sarebbe dire, alle orecchie di Clitemnestra, Cassandra oscilla, dunque, tra lingua comprensibile e lingua incomprensibile. Utilizzare il termine barbaros non significava, infatti, affermare che una persona parlava una lingua sconosciuta. Significava piuttosto, che questa, stava semplicemente storpiando quella greca. La prigioniera Troiana è una rondine, «una bestia selvaggia». Il suo linguaggio è barbaro come barbari sono perfino i gesti delle sue mani. Ma Cassandra è veramente una pazza, come vorrebbe la regina? No, è semplicemente “una straniera” che non comprende la lingua in cui le parlano e, a sua volta, ne parla una che gli altri non capiscono. Cassandra è un paradigma della diversità, e non lo è per il suo abbigliamento, i suoi tratti somatici, o il modo in cui si comporta, ma per il suo silenzio. In piedi, su quel carro, la prigioniera Troiana rappresenta la più drammatica delle alterità: quella vocale.
Quando si presenta, infatti, lo straniero non è soltanto avvolto da vesti insolite, non ha solo pelle, occhi o viso di diverso colore rispetto ai nostri: è soprattutto prigioniero di una “voce” che non ci appartiene e che lo separa irrimediabilmente da noi. Ma è poi veramente una voce la sua? I Greci dubitandone, hanno spesso concluso che la vocalità dello straniero assomigliava piuttosto al grido di un animale, al cinguettio di un uccello o al farfugliare sconnesso del balbuziente.
Il fatto è che lo straniero è difficile da “pensare”. Sembra così simile a “noi”, eppure parla in modo incomprensibile, è identico e diverso nello stesso tempo. In quale categoria si può infilare un soggetto del genere? Visto che trovarne una appropriata è faticoso, meglio assimilarlo a qualcosa che si conosce di già: all’animale, ad esempio, oppure all’essere umano menomato, inferiore, mal riuscito.
Proprio come accade a Cassandra, anche se il suo non costituisce di certo l’unico caso.
Le profetesse che davano i responsi oracolari a Dordona, in Epiro, venivano chiamate col nome di «colomba». Secondo Erodoto, la causa era da ricondurre alla loro origine egiziana e dunque alla loro diversa lingua, o forse al fatto che quando parlavano davano l’impressione di non proferire parole, ma di cantare. Inoltre, lo stesso Erodoto, descrivendo gli Etiopi Trogloditi come coloro che nella corsa sono i più veloci fra gli uomini, non mancava di definirli in base a due parametri: il come parlavano e il cosa mangiavano. Raccontava, infatti, che questi si nutrivano di serpenti e di lucertole, e quando parlavano usavano una lingua che non somigliava a nessun altra: stridevano, infatti, come fossero pipistrelli. Siamo, così, passati dalla tenera immagine delle colombe ai ben più sgradevoli ed inquietanti volatili. Oltre ai Trogloditi, per i Greci esisteva anche un’altra categoria di “persone” che squittiva invece di parlare: i morti. È Omero che li descrive così, come ombre vane che svolazzando nell’Ade lanciavano strida. Chi ha perso la luce della vita, ha perso per sempre anche il linguaggio. L’articolazione del linguaggio, quindi, ha ceduto il posto ad un miserabile squittìo. Altre volte, invece, i Greci attribuivano allo straniero non la vocalità della bestia, ma quella del balbuziente: essere umano parlante sì, ma dalla lingua difettosa. Se non fosse stato balbuziente, insomma, se fosse stato sano e normale, lo straniero avrebbe parlato come noi.
Pensando al contesto odierno, non ci ricorda un po’ il “vu’ cumprà” dalla fonetica zoppicante che cerca di convincere ad un acquisto, o il farfugliare parole bisillabe da parte dei bambini cinesi alla scuola elementare?! Prigioniero di una voce che non ci appartiene, allo straniero tutt’oggi viene fatta indossare la maschera di Tartaglia, e in lingua altrui cade ed incespica laddove, nella propria correrebbe più spedito di un Etiope. A noi, futuri facilitatori d’apprendimento linguistico, l’arduo compito di “eliminare” la maschera!
Laura Bonasera
cfr. Maurizio Bettini, La voce dello straniero, in La Repubblica, martedì 14 novembre 2006, pag.49